ADS: insufficienza della Psicosi – non vale sillogismo “Psicosi = pericolosità”

MALATTIA PSICHIATRICA NON VUOL DIRE INCAPACITA’ GIURIDICA

ADS & psicosi

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Interessante provvedimento del Tribunale di Varese, Ufficio Vol. Giur.: un decreto del 28 giugno 2012  a firma del Giudice tutelare, Giuseppe Buffone, che affronta e risolve la questione aperta fra patologia psichiatrica e Amministrazione di sostegno.

Il principio che viene per la prima volta enucleato da un Giudice Tutelare afferma che un paziente seppur “malato” a causa di un disturbo psichiatrico non è necessariamente da confinare entro i limiti di una misura di protezione giuridica.

Il Giudice precisa con fermezza che, altrimenti, avviare una amministrazione di sostegno al solo comparire di taluni disturbi psichiatrici nel paziente equivarrebbe ad alimentare un pregiudizio che è agli antipodi dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.

Anzi, la procedura  di sostegno avviata in tale situazione andrebbe persino ad alimentare le conseguenze negative che derivano dallo «stigma» ovvero l’insieme di pregiudizi sociali e preconcetti che circondano la malattia mentale e che già limitano il paziente nella sua realizzazione personale e nel percorso terapeutico.

In realtà il Giudice va pure oltre la risoluzione della vicenda di causa affrontando la stessa concezione dogmatica dell’istituto: si deve così prendere atto che non accettare pienamente il principio di questa sentenza varrebbe ad accettare che l’amministrazione di sostegno sia come un “ammortizzatore sociale”, come forse troppi vorrebbero.

Di seguito riportiamo per estesa la motivazione del decreto.

Alberto Vigani


… omissis ….

Rileva e Osserva quanto segue

I dati salienti relativi alla persona da proteggere sono i seguenti: la beneficianda è titolare di pensione INPS di circa 770,87 euro e non risulta titolare di immobili o altri patrimoni. Vive autonomamente in appartamento condotto in locazione. E’ capace di sottoscrivere gli atti giudiziali e di esprimere il proprio convincimento circa le attività da svolgere nel suo interesse: tant’è che nell’odierno processo, ella è stata capace di stipulare un contratto di patrocinio con l’Avv. … …. e di costituirsi in giudizio per resistere al ricorso, promosso dai familiari.

A livello clinico, la beneficianda segnala di sottoporsi spontaneamente a trattamento farmacologico dal 2010, a causa di una psicosi paranoidea con disturbi comportamentali.

La parte ricorrente richiede l’amministrazione di sostegno perché la beneficiaria non
sarebbe in grado di assumere decisioni consapevoli in modo autonomo, per quanto concerne in particolare la gestione del denaro.

La parte ricorrente descrive e allega bene e sufficientemente il quadro patologico della beneficiaria ma nulla prova quanto alla eventuale incidenza negativa dello stesso sulla sua capacità di gestire le sue sostanze. Circostanza che, invero, secondo un ragionamento inferenziale, appare smentita: con una minima pensione di euro 770, detratto il canone di locazione, e le spese vive, non escluse quelle mediche, è difficile ipotizzare un patrimonio così pingue da consentire nocumento (non allegato: es. uno sfratto, una bolletta non
pagata, etc..).

In sede di esame, inoltre, la beneficiaria è risultata bene in grado di colloquiare e di esternare le proprie volontà.

Il ricorso va rigettato.

Giova ricordare che il termine “psicotico” ha ricevuto una quantità di soluzioni differenti, nessuna delle quali ha raggiunto un’accettazione universale. Il termine è stato precedentemente definito come una perdita dei confini dell’io o una compromissione importante della capacità di esame della realtà. Nel DSM-IV-TR, il termine, in senso meno restrittivo, è riferito alle situazioni in cui il paziente avverte deliri, allucinazioni rilevanti e, in genere, esperienze allucinatorie (v. DSM–IV–TR, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Il fatto che un paziente sia “malato” a causa di un disturbo psichiatrico non è elemento sufficiente per confinarlo entro i limiti di una misura di protezione giuridica.

Giova ricordare che, originariamente, la malattia mentale veniva addirittura associata ad una eziogenesi sovrannaturale, divina o demoniaca e che, nelle prime catalogazioni europee, non vi era nessuna remora ad utilizzare il termine «pazzi» o «deficienti mentali».

Ancora oggi, il malato psichiatrico accusa le conseguenze negative che derivano dallo «stigma» ovvero l’insieme di pregiudizi sociali e preconcetti che circondano la malattia mentale, specie nei rapporti interpersonali e relazionali, e creano una sorta di “marchio” invisibile attorno al paziente, visto – sovente e senza ragione – come socialmente pericoloso, aggressivo o non curabile. Il termine stigma, insomma, tende ad indicare un’etichetta negativa attribuita indistintamente ad un malato psichiatrico,  una discriminazione basata sul pregiudizio nei suoi confronti. Le convinzioni alla base dello stigma non riconoscono che persone sofferenti di disturbi mentali, se adeguatamente curate, possono recuperare capacità intellettive e razionali compatibili con una vita sociale attiva e produttiva: esse, purtroppo, sono anche alla base di gravi effetti “indiretti” sulla vita stessa del paziente. Infatti, “il malato, in fuga dalla propria condizione per timore dello stigma”, non riesce a migliorare e si isola, peggiorando il proprio stato di esclusione e rafforzando il pregiudizio stesso. Ecco perché, in realtà, lo stigma permea ad ogni effetto nell’ambito del trattamento terapeutico, quale elemento (variabile ma in genere mai assente) che incide sul benessere psico – fisico del portatore della patologia, potendo, ad esempio, essere un agente stressante che pregiudica o limita gli effetti benefici di un trattamento terapeutico. Lo stigma tende a creare un impoverimento dei rapporti personali del malato e, soprattutto, la sua alienazione dal contesto sociale, cosicché i danni alla persona derivano non dalla patologia ma, paradossalmente, dal modo in cui la società
la ripudia, la stigmatizza.

Ebbene, istituire una amministrazione di sostegno per il solo fatto che il paziente accusa un disturbo psichiatrico equivarrebbe ad alimentare lo stigma che, al contrario, la ratio istitutiva dell’ADS mirava a demolire completamente. Non solo: il rischio è quello di trasformare l’amministrazione di sostegno di un “ammortizzatore sociale”, come taluno ha scritto.

Vi è, poi, altro.

In linea con la giurisprudenza di altri uffici Tutelari (v. Trib. Busto Arsizio, sez. Gallarate, decreto 12 ottobre 2011, g.t. V. Conforti), reputa questo giudice che l’attivazione di una
figura di protezione presupponga, nell’accertato riscontro di una disabilità latu sensu intesa del beneficiario, che vi siano effettivi ed attuali bisogni cui far fronte e che a tal fine non soccorra già un’idonea rete familiare, ove non sussistono conflitti ovvero dubbi sul perseguimento degli esclusivi interessi del soggetto debole da parte del contesto familiare che lo assiste, anche svolgendo talune incombenze per suo conto; pertanto, la nomina di un amministratore di sostegno non è necessaria ed opportuna in ogni situazione di “incapacità” ma impone piuttosto una valutazione della complessiva situazione della persona in difficoltà.

D’altronde appare conforme alla lettera ed allo spirito della legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno attingere a questa misura protettiva quando ve ne sia un concreto e soprattutto attuale bisogno, non potendosi accedere a domande presentate per la mera e futura eventualità del venir meno di un sistema di protezione spontaneo.

Quando si ravvisa l’esistenza di rapporti familiari e/o socio assistenziali tali da potersi considerare validi meccanismi di supporto e di assistenza del soggetto debole assimilabili di fatto alla figura di un amministratore di sostegno non occorre, a parere del decidente, una necessaria formalizzazione del ruolo da parte del Giudice Tutelare con decreto; a meno che, ma non è questa l’evenienza portata all’attenzione del Giudice, non emergano elementi tali da far ritenere opportuno un controllo del GT ovvero vi siano specifiche esigenze dell’interessato che le figure garanti di un sostegno di fatto non possano porre in essere se non con l’istituzionalizzazione del ruolo da parte del Tribunale.

In tal senso si è espressa una parte della giurisprudenza di merito proprio evidenziando che “la necessità di un amministratore di sostegno sempre e in ciascuna situazione di bisogno comporta una necessaria “istituzionalizzazione” di ogni figura di “assistente” e tradisce la lettera e lo spirito della legge. In altri termini, l’avvio del procedimento sempre e comunque, senza un’articolata valutazione della situazione della persona in difficoltà rischia poi di alla rgare a dismisura l’ambito di concreta applicazione dell’istituto, sino a renderlo praticamente inefficace perché in concreto non gestibile nei tempi e nei modi previsti dal legislatore…..” (Tribunale Trieste decreto 24 gennaio 2006; cfr anche Tribunale di Trieste 5 ottobre 2006 ; Tribunale di Trieste 23 maggio 2008).

Ciò detto, nel caso di specie, come già rilevato, non si ravvisano gli estremi ed i presupposti per l’amministrazione di sostegno:

a) quanto alla complessità delle attività da svolgere, come visto, la ricorrente gode di un patrimonio minimo che risulta impiegare in modo corretto.

b) quanto alle potenzialità (auto o etero) lesiva dell’incapace, sono del tutto assenti nel caso di specie e la beneficiaria è soggetto collaborante e dialogante;

c) quanto alla eventuale adeguatezza in concreto dell’amministrazione di sostegno, nel caso di specie, all’esito dell’esame, non se ne vede la necessità e, anzi, istituzionalizzando l’attuale rete di protezione, il rischio è quello di pregiudicare il buon funzionamento di una assistenza che, allo stato efficace, non priva la beneficiaria di sfere di autonomia giuridica.

Conclusioni diverse potevano essere rassegnate in presenza di oggettivi impasse alla
espressione dell’autonomia del soggetto debole: già quanto può ritenersi accada, ad esempio, per la persona vulnerabile che non sia più in grado di firmare o che versi in uno stato di completo disorientamento spazio – temporale. In altri termini, in conformità al dato legislativo, la misura di protezione deve sopperire a lacune nella sfera di autonomia del soggetto non colmate dalla fisiologica e naturale rete di protezione rappresentata dagli affetti o dalle misure di assistenza sociale. Occorre non dimenticare, insomma, che qualunque misura di protezione, anche quella più lieve, costituisce pur sempre una limitazione della persona e, come tale, va applicata
sempre secondo il criterio della residualità (dove, cioè, altre misure non limitative non possano rivelarsi utili).

P.Q.M.

letti ed applicati gli artt. 404, 405, 409 cod. civ., 720 – bis c.p.c.

Rigetta il ricorso

Si comunichi
Varese lì 28 giugno 2012
Il Giudice Tutelare
dott. Giuseppe Buffone

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